Voglio iniziare questo articolo con un’affermazione tanto banale quanto frequente nel linguaggio quotidiano:
una persona dice all’altra “dovresti chiedere aiuto a uno psicologo per questo problema”; l’altra risponde “non ne ho bisogno, non sono pazzo!”.
Ma chi sono i pazzi?
L’etimologia del termine “pazzo”, dal latino Pat-ior, e dal greco “pathos”, fa riferimento alla sofferenza, all’infermità di corpo e d’animo. Alcune scuole linguistiche collegano il termine anche all’antico tedesco parzian o barjan che vuol dire “infuriare”.
Allora i pazzi sono coloro che patiscono, che soffrono non solo nel corpo ma anche nell’animo e che si infuriano (io direi giustamente).
Questa descrizione effettivamente calza a pennello con quanto si riscontra in ambito clinico nei casi di malattia mentale, ma d’altronde potrebbe rispecchiare il vissuto di qualsiasi persona.
Difatti, a chi non capita di soffrire? per situazioni esterne, ambientali, sociali e per questioni interiori, per malattie del corpo o per uno stato d’animo che pur non provenendo dal corpo comunque lo coinvolge ed a volte anche pesantemente.
Gli esseri umani sono vulnerabili e ci sono dei momenti della vita o delle situazioni che possiamo vivere con “pathos”.
La mia esperienza professionale mi porta a dire che coloro che si rivolgono ad un professionista psicoterapeuta nella maggioranza dei casi, non sono i “pazzi” in senso figurato. Le persone che scelgono questo percorso che è anche di conoscenza di sé stessi, non appartengono al regno della pazzia, eppure sono sofferenti, patiscono qualcosa e non pensano di avere gli strumenti o le risorse per porre fine a quella sofferenza.
Ma allora che cosa differenzia i cosiddetti “normali” dai cosiddetti “pazzi”?
La differenza sta nell’intensità dell’angoscia, nella pervasività dei sintomi, mentre i meccanismi psicologici che governano la vita umana sono gli stessi per tutti. Altra differenza fondamentale che tuttavia è collegata alla prima, è il contatto con la realtà.
Ma cos’è il contatto con la realtà?
Quando la sofferenza è intensa provoca una distorsione nella percezione nella realtà esterna; le cose, le persone, le situazioni appaiono con una coloritura diversa, che è il riflesso della nostra psiche. Ciò che non può essere riconosciuto e accettato in sé stessi viene proiettato all’esterno, visto negli altri.
Gli altri diventano “attori” che interpretano i personaggi della nostra psiche sul palcoscenico della vita, senza che noi ne abbiamo alcun sentore. Per questo dovremmo ringraziare gli altri che con la loro esistenza ci permettono di entrare in contatto con ciò che ci appartiene, con noi stessi.
Nella relazione terapeutica lo Psicoterapeuta è “l’altro” e il setting terapeutico è il “palcoscenico”, dove i contenuti della psiche recitano il loro dramma. Su questo palcoscenico viene proposto ogni sorta di spettacolo che è immaginario ma allo stesso tempo reale. Reale perché produce un effetto nella vita del paziente, l’effetto è il pathos.
Chi può affermare che la sofferenza non sia reale?
Ma quando attraverso l’altro nella psicoterapia, lo spettacolo messo in scena diventa visibile tramite il racconto che lo Psicoterapeuta riesce a farne, qualcosa di vitale si svela agli occhi di chi patisce, diventa finalmente visibile, si può riconoscere come appartenente a sé stessi, si può toccare attraverso l’emozione che ne sgorga e arricchire la personalità.
La conseguenza è concreta, reale, è il cambiamento.